domenica 28 aprile 2013


Hud il selvaggio (1963)
 
 

"Nessuno esce vivo dalla vita" 
 
Presentato al Festival di Venezia nel 1963, “Hud il selvaggio” è l’adattamento cinematografico del romanzo di Larry McMurtry “Horseman, pass by”. Prodotto e diretto dal regista americano Martin Ritt, questo film segna uno dei vertici nella carriera del grande Paul Newman, qui alle prese con uno dei suoi ruoli più famosi: quello di Hud Bannon, un uomo spregiudicato, arrogante, insolente ed egocentrico. Egli ha pochi interessi oltre a quello di divertirsi evitando le responsabilità. La sua vita è limitata al bere, iniziare risse al bar, girare con la sua Cadillac sportiva rosa ed andare a letto con donne, sposate o meno.
In perenne disaccordo con l’anziano padre Homer, un allevatore dai solidi principi che non ha mai perdonato al figlio di aver provocato la morte del fratello maggiore. Al centro di questo insanabile conflitto troviamo il nipote diciassettenne Lonnie, adolescente inquieto interpretato dall’ex-bambino prodigio Brandon De Wilde (scomparso in un incidente stradale a soli trent’anni).

L’ambientazione del film di Ritt è il profondo Sud degli Stati Uniti, scenario di innumerevoli saghe familiari del cinema americano classico: quel Texas rurale, irrimediabilmente cristallizzato nel mito del western, che ritroveremo anche in un’altra celebre pellicola tratta da un libro di McMurtry: “L’ultimo spettacolo”, portato sullo schermo da Peter Bogdanovich nel 1971. Ed è proprio in un vasto ranch del Texas che ha luogo il violento confronto fra Hud, egocentrico, amorale ed incapace di assumersi le proprie responsabilità, e suo padre Homer, un uomo tradizionalista legato al valore del proprio lavoro e della propria terra. Un confronto che si concluderà in un epilogo decisamente amaro.

La sceneggiatura del film, firmata da Harriet Frank Jr ed Irving Ravetch, si distingue per la perfezione dei dialoghi e l’accuratezza nel disegno dei personaggi; ma all’esito complessivo contribuisce soprattutto un cast magistrale, capitanato da un eccellente Paul Newman e dalla bravissima Patricia Neal nel ruolo di Alma, la disincantata governante del ranch dei Bannon. Vincitore di tre premi Oscar: miglior attrice (Patricia Neal), miglior attore non protagonista (Melvyn Douglas) e miglior fotografia, per il suggestivo bianco e nero di James Wong Howe. 


"L'unica cosa che chiedo ad una donna è quando rientra suo marito"






Justin Townes Earl

Non mi sono dato alla musica per diventare un musicista blues o un musicista country. Sono un cantautore. Nel mio libro significa che riesco a fare quello che voglio”



Non è certamente semplice essere figli d’arte se si vuole intraprendere la stessa carriera del genitore famoso, soprattutto in ambito artistico.
Non sono molti i casi nei quali il figlio riesce a superare il padre o, per lo meno, a costruirsi uno stile proprio ed un percorso ben definito.
Tra quelli che sembrano avercela fatta c’è Justin Townes Earle, figlio di Steve Earle, cantautore americano rock e country nonché attivista politico della sinistra radicale.
Giunto ormai al quarto disco e superata la soglia dei trent'anni, Justin racconta tutta la sua debolezza, ma anche tutto il suo desiderio.
Si spazia tra folk, blues e alt country e le chitarre sono spesso accompagnate da strumenti a fiato tipici della musica di Nashville e del sud.
La voce e la capacità di interpretazione di Justin, poi, sono forse il punto di forza che ci fa rendere conto di essere di fronte ad un artista completo, capace di travalicare i generi.
Tra chitarre dal tocco nitido, sussulti di contrabbasso e bordoni d'organo dal sapore gospel, il taglio più marcatamente country-folk dei precedenti lavori di Earle torna solo alla fine del disco, con una "Movin' On" che sembra voler prendere in prestito da Johnny Cash il ritmo inconfondibile dell'era Sun Records.


“Nessuno vuole sentire la canzone di uno che se la passa meglio di te. Non sono un autore che si siede e scrive. Faccio parte della categoria che fra i songwriter va sotto il nome di "autore da tovagliolo di carta" (ovvero chi scarabocchia idee su qualunque cosa abbia sotto mano).
Mentre scrivo metto raramente le mani sulla chitarra. Assemblo i pezzi piano piano.
A volte ci metto mesi a comporre una sola canzone, perciò spesso ne lavoro tre o quattro contemporaneamente”


“Voglio essere un songwriter ed è un campo aperto, pieno di possibilità. Significa che finché faccio le cose per bene, posso permettermi di fare quel cazzo che mi pare. È uno dei privilegi di questo lavoro. Quando si tratta di arte, ti detti da solo le regole. Sei tu che scegli il tuo destino. È una delle poche cose che non ho sbagliato nella vita: sono stato in grado di tenere aperte molte opzioni come artista. Ho lasciato che le donne e le sostanze chimiche mi rovinassero la vita, ma non ho mai permesso che qualcosa o qualcuno compromettesse la visione di quel che volevo essere in quanto songwriter”



domenica 21 aprile 2013



La morte corre sul fiume (1955)


La morte corre sul fiume è un film del 1955, prima ed unica opera cinematografica realizzata dall’attore Charles Laughton come regista.
Tratto dal romanzo The Night of the Hunter  di David Grubb è stato girato in poco più di un mese.
Siamo nel sud degli Stati Uniti negli anni trenta. Il finto reverendo Harry Powell, fondamentalista cristiano schizofrenico e maniaco, attraversa l’America lasciandosi dietro una scia di donne uccise. Per impadronirsi di diecimila dollari nascosti da un ex compagno di cella giustiziato, il folle sposa la vedova dell’uomo e cerca di estorcere ai due figli informazioni inerenti al nascondiglio del malloppo. Ma i piccoli hanno giurato al padre che non avrebbero mai parlato, e iniziano così una fuga lungo il fiume Ohio in cerca di aiuto, col reverendo alle calcagna.
La morte corre sul fiume è una delle più belle favole nere mai raccontate al cinema, irreale e allo stesso tempo radicata nella realtà.
La splendida fotografia in bianco e nero di Cortez, è incredibilmente efficace nel descrivere il terrore, la tensione, l’angoscia nello spettatore, mischiando elementi tipici dell’espressionismo tedesco, del surrealismo e derivazioni del teatro cinese delle ombre.
E’ un omaggio all’infanzia, la triste constatazione dell’età della purezza macchiata dai pesanti fardelli della violenza e del male da parte degli adulti.
Atto d'accusa contro il fanatismo nella religione cristiana, il puritanesimo e i falsi profeti.
L’interpretazione di Robert Mitchum è certamente una delle migliori in assoluto della storia del cinema, rende il personaggio del pastore davvero diabolico, senza scrupoli morali di alcun tipo, assassino della peggior risma, una vera e propria impersonificazione del Demonio.
Sette anni dopo nel Il promontorio della paura, si calerà in un personaggio molto simile.









"Ah, Signore, sono stanco: alle volte ho paura che tu non mi capisca. Non ti importa se uccido, vero? La Bibbia è piena di uccisioni, ma ci sono cose che tu odi, Signore: la corruzione, la lascivia, la gente profumata che s'inebria nel peccato..."



sabato 20 aprile 2013

venerdì 19 aprile 2013



La contea più fradicia del mondo – Matt Bondurant


Quando ha inizio il proibizionismo nel 1920, il commercio di alcol si fa illegale e di conseguenza il contrabbando dello stesso diventa l’unico modo di spaccio e ottima entrata redditizia per chiunque riesca a praticarlo.
Nella contea di Franklin in Virginia, dove nel 1935 il 99 per cento della popolazione produceva o era coinvolta nella produzione di alcol illegale, vivono i tre fratelli Bondurant, i migliori nella produzione di una qualità di whisky alta e ricercata.
Mentre gli affari vanno a gonfie vele, da Chicago arriva il vice-sceriffo Charlie Rakes che, insieme al procuratore distrettuale, obbliga tutti i contrabbandieri a pagare una tassa sullo smercio dei loro prodotti. Con le buone e con le cattive molti si piegano alla nuova e corrotta legge, solo i Bondurant, decidono di ribellarsi ad essa.
In parallelo viene raccontata la storia dello scrittore Sherwood Anderson che cerca notizie sui temuti fratelli per ricostruirne le gesta e scrivere un articolo sulla produzione di alcol illegale.
La scrittura è il vero punto di forza di questo romanzo, degno della migliore tradizione americana del secolo scorso.
Matt Bondurant riesce a ricreare (anche grazie alla sua ricostruzione minuziosa tramite testimonianze, atti processuali e saggi) i fatti e l'ambientazione di un America rurale, quella narrata da Steinbeck e dallo stesso Anderson, nella quale imperversavano moonshiners, contrabbandieri e produttori illegali di whisky.
Dal libro è stato tratto il film Lawless, diretto da John Hillcoat (La Proposta, The Road) e sceneggiato da Nick Cave.

sabato 13 aprile 2013



L’ultimo spettacolo (1971)


Ad Anarene cittadina da western, in Texas, le giornate si susseguono nell’alternarsi tra la sala da biliardo, la tavola calda, e il cinema. Il principale argomento di discussione è rappresentato dalle partite della squadra di football. Tutti sanno tutto di chiunque, le voci si diffondono istantaneamente e non esistono segreti. La sonnolenta routine quotidiana si è appiccicata addosso agli adolescenti e non ci sono sogni ne vie di fuga da una quotidianità opprimente e meccanica.
Essi vivono staticamente il proprio presente, trascinandosi tra modesti divertimenti e trasgressioni sessuali.
"The Last Picture Show", secondo lavoro del regista  Peter Bogdanovich, sta tutto qui.
Non accade molto a conti fatti. Eppure, "in questa  pigra quotidianità consumata senza più illusioni, si può ritrovare interamente la storia, la vita, la letteratura e il cinema d'America" .
Bogdanovich ricalca l’ambientazione degli anni cinquanta optando per un bianco e nero sgranato e anacronistico, consigliato dall'amico Orson Welles.
Se la struttura del film è solidamente improntata su certi temi del cinema di genere Fordiano (la cittadina di confine, il cowboy nostalgico e solitario, lo scemo del villaggio, il saloon, la visione misogina dell'universo femminile) il regista si impegna a ribaltare tutte le aspettative dello spettatore, spiazzando e complicando le cose.
 In  quasi tutto il film  le bellissime musiche di sottofondo provengono da una radio, da un juke box e da un giradischi portatile. 
 "L'ultimo spettacolo" è un film sulla fine dei sogni, sulla fine del cinema, e, forse, sulla fine dell'America.
 


martedì 9 aprile 2013



Frank Fairfield


La sensazione è quella di compiere un balzo indietro nel tempo tornando all'America rurale dell'inizio del secolo scorso, quando la musica era parte integrante della vita quotidiana e della cultura delle persone comuni. Con i suoi vent'anni ed un repertorio fatto di folk, bluegrass ed old-time music, Frank Fairfield sembra un personaggio sfuggito ad un racconto di William Faulkner o ad una pellicola dei fratelli Coen.
Nato in California nella San Joaquin Valley, fin dall'adolescenza il giovane artista intraprende una vita randagia frequentando saltuariamente il college e accettando lavori umili per sbarcare il lunario, almeno fino al momento in cui non si ritrova ad Oakland in completa miseria ed è costretto a riparare a Los Angeles, dove può contare sul supporto della famiglia.
 E' nella città degli Angeli che Frank matura la decisione di seguire le orme del nonno, errabondo musicista e raccoglitore di frutta, e torna sull'asfalto portandosi dietro una chitarra, un violino, un banjo ed un antico grammofono con una collezione di rari 78 giri, per mettere in scena un numero che Robin Pecknold dei Fleet Foxes definisce "...suona proprio come Mississippi John Hurt...nato nell'epoca sbagliata...e con una voce meravigliosa...", ed è tra i saltimbanchi e le chiromanti che affollano i marciapiedi di Hollywood, che Fairfield viene notato e inserito in piccoli eventi locali fino a fare da supporter a importanti band. Josh Rosenthal, responsabile di un etichetta di New York molto attenta alla tradizione, mette sotto contratto il giovane talento per un esordio omonimo, che suscita tanto entusiasmo da scomodare perfino il musicologo Greil Marcus, che scrive di lui "...un giovane californiano che canta e suona come qualcuno sgusciato dalle montagne della Virginia portando con sè canzoni familiari che nelle sue mani paiono dimenticate: versi spezzati, un ronzio dissonante, il violino o il banjo suonati in maniera percussiva, ogni momento in crescendo più alto di quello precedente...". Oggi Fairfield non è una star, ma di sicuro uno dei nomi da tenere in conto quando si parla di musica trazionale americana, dato che il nuovo lavoro di studio Out on the Open West non si limita a rileggere vecchi traditionals, ma allinea una manciata di composizioni autografe, che dei traditionals mantengono tutta la sacralità ed il rigore. Quella di Frank Fairfield è una musica fuori dal tempo, arcaica, cruda e rurale, con melodie semplici e prive di qualsiasi virtuosismo, ma estremamente toccanti ed autentiche, intonate da una voce che suona polverosa ed antica come i versi che interpreta. Out on the Open West è un lavoro di grande intensità e spessore culturale, dove i suoni sono ridotti all'osso, le armonie delineate da un paio di strumenti al massimo e cantate da una voce che sembra provenire da un cilindro di ceralacca.
Registrato in mono, Out on the Open West è il canto di un'America estinta che gira a 78 giri e che sopravvive forse solo nelle strofe e nelle incerte melodie di queste meravigliose canzoni. 

 (Tratto dalla rivista Buscadero)




lunedì 8 aprile 2013



A sangue freddo (1967)


In una notte di novembre del 1959 due giovani, Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock, usciti di carcere in libertà vigilata, fidandosi di una vaga informazione relativa all'esistenza di una cassaforte in casa di un agricoltore, si dirigono ad Holcomb, la città dove questi vive con sua moglie e due figli. Penetrati nella casa, dopo aver cercato invano il denaro, Smith ed Hickock uccidono l'intera famiglia per nulla.
Inizia cosi' la loro fuga mentre la polizia brancola nel buio, non trovando alcun movente al delitto.
Basandosi su questo fatto di cronaca realmente accaduto, Truman Capote pubblicò il romanzo-inchiesta dal titolo “A sangue freddo” costato sei anni di lavoro, che gli diede la fama. 
Il romanzo è stato scritto sulla scorta di una assidua frequentazione dei protagonisti reali della vicenda e segnò talmente l'esperienza artistica ed umana di Capote da rimanere l'ultima sua opera portata a termine.
Il regista Richard Brooks ne ricavò un film asciutto, intenso, implacabile, girato nei luoghi reali, compresa la casa del delitto. Fotografato in uno splendido bianco e nero da Conrad Hall è un'opera che sconcerta ancora oggi a quarant'anni di distanza.
Il film è una discesa nelle tenebre del cuore umano, all’inutile ricerca di un senso che non c’è. 



"Medici e avvocati, che gliene frega? Hai mai visto un miliardario sulla sedia elettrica, tu? Manco per cavolo. Le leggi sono due, bello mio, una per i ricchi e una per i poveri!"

venerdì 5 aprile 2013



Solo sotto le stelle (1962)



"Il mondo in cui tu e Paul vivete non esiste. Forse non è mai esistito. Là fuori c'è il mondo vero... che ha dei veri confini, dei veri recinti, delle vere leggi e dei veri guai. E o tu accetti quelle leggi o perdi. Perdi tutto ciò che hai."
"Qualcosa ti resta sempre."



New Messico 1950. Jack Burns (Kirk Douglas), idealista e solitario cow-boy, appreso che l’amico scrittore è in carcere, si fa arrestare per aiutarlo ad evadere. Ma questo rifiuta di fuggire. Burns allora evade da solo con il suo cavallo dando vita ad una spietata caccia all’uomo. Riesce abilmente a sottrarsi all'inseguimento della polizia e si avvia verso il confine messicano.
Tratto da un romanzo di Edward Abbey, The Brave Cowboy, e sceneggiato da Dalton Trumbo è un western moderno che, attraverso l’amara considerazione sulla fine di un’epoca e sulla decadenza della figura del cow-boy, lascia intravedere sullo sfondo la storia dello sceneggiatore, finito sulla lista nera e condannato  ad alcuni mesi di carcere per le sue idee politiche durante l’epoca del Maccartismo.

"Senti, non puoi andare in giro senza un documento d'identità, è contro la legge, come si fa a sapere chi sei?" "A me non servono le carte per sapere chi sono, io lo so già."


"Sai quanto danno in questo stato per un'evasione?" "No, non sono mai evaso in questo stato."



“Sono un solitario e lo sono nel più profondo di me stesso. Sai che significa? E' come essere sporchi. L'unica persona con la quale il solitario riesce a vivere, è se stesso. La sua vita e il modo in cui viverla è tutto per lui”.