venerdì 28 giugno 2013





St. James Infirmary Blues


St. James Infirmary blues è un canto popolare americano di origine anonima, sebbene qualche volta risulti accredidato al compositore Joe Primrose.

Louis Armstrong lo rese famoso nella sua incisione del 12 dicembre 1928 e da allora fu ripreso da centinaia di musicisti.

Il testo, o almeno alcuni elementi di esso, verrebbe da una vecchia canzone irlandese mentre il titolo si riferisca al St. James Hospital di Londra, una fondazione religiosa per il trattamento di lebbra.
La canzone  doveva circolare nei locali di Storyville a New Orleans fin dagli inizi del ’900.
Nella registrazione Armstrong ne fa una marcetta funebre nello stile Dixieland che New Orleans esportava allora in tutto il mondo: trombe tromboni clarinetti piano e banjo.

Sono andato all’ospedale St. James
là ho visto la mia piccola
distesa su un lungo tavolo bianco
così fredda, così dolce, così bella
Lasciala andar via, lasciala andar via,
Dio, dai la tua benedizione
ovunque lei sia
può riguardare questo vasto mondo
ma non potrà trovare un uomo dolce come me

quando morirò seppellitemi
con le scarpe lucide

voglio una giacca con i risvolti
e un cappello Stetson
mettete una moneta d’oro da venti dollari
sulla catena dell’orologio
così che i ragazzi penseranno tutti
“anche da morto sa il fatto suo!”







giovedì 27 giugno 2013

martedì 25 giugno 2013



Jelly Roll Morton
“Amico, ricordati che qualunque cosa suonerai, l’ha inventata e già suonata Jelly Roll Morton”

 
Ferdinand “Jelly Roll” Morton  è una fra le più eccentriche figure del jazz.
Altezzoso, sprezzante, elegantissimo, truffatore, baro, giocatore d’azzardo,  viveur e protettore, odiato da tutti,  ha  caratterizzato l’epoca di transizione dal ragtime.
Alla pari di Armstrong, Oliver e altri dello stesso calibro, ha forgiato e definito il linguaggio dei primi anni del Jazz .
Nasce a New Orleans il 20 settembre del 1985, orfano giovanissimo, viene allevato da una madrina e dalla nonna materna. Studia chitarra, trombone e pianoforte;  nei primissimi anni del nuovo secolo suona il pianoforte nei bordelli di Storyville, il quartiere della prostituzione legalizzata di New Orleans, e  fa  anche il protettore.
Proprio qui il musicista perfeziona le sue qualità di pianista e di compositore, fondendo la musicalità del ragtime e del blues, di motivi popolari e arie d'opera, con la musica della tradizione nera, meticcia e messicana.
Il movimento e l'elaborazione tramite riff, improvvisazione negli assoli, la ricercatezza timbrica vocale e strumentale sono le linee guide della sua creatività.
A17 anni, viene cacciato di casa dalla nonna materna alla quale rivela la provenienza dei suoi introiti. Lasciata la sua città suona a Saint Louis, Chicago,  New York  e, infine, giunge in California nel 1915.
Nel suo vagabondare da una città all’altra le sue eccentricità gli procurano antipatie e minacce, talvolta concretizzatesi in vere e proprie aggressioni; non tralascia mai di presentarsi come il creatore del jazz e  iniziava ogni esibizione con un ragtime veloce per accattivarsi la benevolenza del pubblico.
Nel 1926 costituisce il complesso 'Red Hot Peppers' col quale dà vita alle più belle incisioni, curando scrupolosamente gli arrangiamenti e l'esecuzione: un feeling (raggiunto anche grazie alle lunghe prove) che ancora oggi attrae e ci fa viaggiare nei suoni dell'America degli anni '30.
Con questa formazione, tra il 1926 e il 1930,  Jelly Roll incide  una cinquantina di dischi di grande successo.
Canzoni come “Black Bottom Stomp”,  “Smoke House Blues”,  “Dead Man Blues”,  “Doctor Jazz”, “Kansas City Stomp” e “Wolverine Blues” sono considerate capisaldi del jazz tradizionale.
La grande crisi  che attraversa tutta l’America segna  anche il declino della popolarità di Jelly Roll Morton; dopo il 1929 le esibizioni in pubblico e le poche incisioni discografiche non riescono a rinverdire il successo ottenuto con i Red Hot Peppers.
 Gli anni trenta sono particolarmente difficili, lo stile “Hot Jazz”  è ormai fuori moda e il pubblico preferisce  i suoni più morbidi e sofisticati dello “Swing”. La progressiva emarginazione è causata anche dal suo carattere violento e dall'alcolismo. Solo nel 1938 riesce di nuovo ad incidere e a rivivere un momento di successo.
Ma l'arroganza lo rende di nuovo inviso all'ambiente musicale: muore in miseria il 10 luglio del 1941, dimenticato da tutti.



“Si sa con assoluta evidenza, al di là di ogni smentita, che New Orleans è culla del jazz, e che proprio io ne sono stato il creatore nell’anno 1902, molti anni prima che si formasse la Dixieland Band”.




lunedì 24 giugno 2013



Frankie Lymon

 

Frankie Lymon è stato il leader della prima formazione del gruppo musicale statunitense The Teenagers, gruppo composto da 5 adolescenti, uno dei primi gruppi di rock and roll, formatosi a New York.
Lymon riscosse un grandissimo successo nella seconda metà degli anni '50 grazie al suo pezzo più famoso, Why do fools fall in love?, del 1956.
Scoperto giovanissimo quando suonava nelle feste private ed apprezzato per la presenza scenica, raggiunse il grande successo a 13 anni con la prima incisione, ma abbandonò il gruppo a 16 per cercare una carriera solista, che tuttavia si fermò subito.
Anche la vita familiare non fu felice: le sue tre mogli (una delle quali fu Zola Taylor, la cantante dei The Platters), non riuscirono a salvarlo dalla droga, dalla quale era dipendente dall'età di 19 anni.
Morì per overdose di eroina a New York, dove viveva con la nonna, all'età di 25 anni, già dimenticato. Venne sepolto nel cimitero di Saint Raymond nel Bronx, New York.


domenica 16 giugno 2013



Il Bastardo – Erskine Caldwell (1929)

 
Il Bastardo di Erskine Caldwell è figlio di prostituta e di padre ignoto, una persona spregevole e violenta. Gene Morgan agisce in un mondo disumano e disumanizzato, crudele, nel quale è annullata ogni regola sociale e una discussione, come se fosse la cosa più normale, può finire a revolverate.
Nel mondo raccontato da Caldwell, la brutale tragicità dei personaggi si consuma senza nessuna poeticità, senza il più fievole barlume di redenzione. Gli eventi sono narrati in maniera oggettiva, annullando completamente qualsiasi empatia tra lettore e protagonista, perché è impossibile comprendere il crudele e animalesco animo di Gene, obbediente solo ai propri impulsi più bassi.
Nulla si salva. Non c’è spazio per redenzione o liete fini.
La stile di scrittura è quasi riflesso dell’aridità interiore delle vite raccontate. Se per i contenuti Caldwell è avvicinabile a Faulkner, il suo è un modo di scrivere diretto e asciutto è alla Steinbeck.
Rimangono impresse le descrizioni. Facile immaginare le invitanti cosce sode di quella giovane puttana, le sentiamo cigolare quelle tavole di legno. Ci stuzzica le narici il rovente profumo di malto e ci sembra di sentirlo addosso, il caldo opprimente di una segheria.
I fatti snocciolati da Caldwell sono sassi gettati da una scarpata che rotolano dappertutto. L’autore, all’esordio, descrive una vita animalesca fatta di violenze sessuali, razzismo, revolverate nello stomaco ed amore marcio come se stesse cercando di spiegare il funzionamento di un motore a scoppio ad un ragazzino al suo primo giorno in officina.



giovedì 6 giugno 2013






Pokey LaFarge

 
Direttamente da St. Louis, Missouri ecco uno dei più interessanti revivalisti dei suoni di una Early America che in questi anni stanno avendo grande eco tra gli appassionati di roots music di entrambi i lati dell’oceano.
Paiono personaggi del "Furore" steinbeckiano, Pokey LaFarge e i suoi South City Three, quattro hobo in viaggio su di un treno merci verso l'assolata California, in una nuova, neanche poi tanto, immaginaria Grande Depressione.
Con loro portano una collezione di canzoni che tratteggiano con sagacia l’amore per il ragtime, le jug bands e l’old time music più ruspante. E dal passato i nostri attingono sonorità e tematiche, rileggendole attraverso un ruspante impasto acustico a base di jazz primigenio, western swing e country blues.
Kazoo, armonica e washboard fanno la parte del leone e caratterizzano un repertorio in larga parte originale ma che sembra uscito da una vecchia incisione degli anni venti o trenta.


Se figura centrale intorno alla quale ruota l'intera esibizione è il sempre più istrionico Pokey LaFarge, i South City Three non si limitano tuttavia al mero accompagnamento, ritagliandosi in più d'un occasione il proprio spazio. Adam Hoskins può così dare sfoggio della propria tecnica chitarristica, mentre il pulsare insistente del contrabbasso di Joey Glynn crea il tappeto ritmico perfetto per le evoluzioni all'armonica di Ryan Koening che, destreggiandosi anche alla washboard e al rullante, è l'autentico jolly del trio.


Una musica, quella del quartetto del Missouri, senza tempo, che pare trovare sulle assi del palcoscenico la sua vera ragion d'essere. D'altronde la loro, citando lo stesso Pokey LaFarge, "it's not retro music, it's American music that never died".