martedì 25 febbraio 2014



Non c’è scampo – Jack Black
 
“Quando iniziai a rubare avevo solo una vaga percezione del fatto che fosse sbagliato; lo accettavo come una cosa da fare perché veniva fatta dalla gente con cui stavo e inoltre era avventuroso ed eccitante. In seguito divenne un’occupazione quotidiana, da svolgere a sangue freddo, e mentre lo affrontavo in modo metodico, accettando i pericoli e le privazioni che comportava, ero del tutto consapevole della gravità delle mie trasgressioni (…) Ho continuato a farlo per anni”

 
“Non c’è scampo” è l’autobiografia di un criminale, ladro, vagabondo dell’America degli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Jack Black ripercorre gli anni dei crimini, la sua dipendenza dall’oppio e la successiva riabilitazione, descrivendo la propria vita con un vago accenno romantico, e raccontando di come esista un’etica anche nel mondo della mala.
Rapinatore e uomo erudito, Black riesce a portare in vita un mondo e un pezzo di storia del Novecento di cui rimangono poche tracce nella letteratura contemporanea.
Il libro è stato scritto nel 1926 e del suo autore si sa poco o nulla tranne che sia nato poco prima del Novecento e morto, in circostanze mai chiarite (affogato), attorno al 1930.
Black, attraverso una scrittura di rara intensità, riesce a raccontarci a partire dalla sua infanzia. Orfano di madre, molto povero, vive con un padre spesso assente. Affascinato da Jesse James, appena tradito e assassinato da un compare, inizia a simpatizzare per banditi e ricercati.
 A quattordici anni lascia la scuola e sceglie la strada, prima dei venti è stato già processato per furto con scasso. A venticinque è un topo d’appartamento, a trenta un ladro rispettato; a quaranta un bandito, un detenuto fuggiasco, con diversi penitenziari alle spalle.
Il suo è stato un vivere sempre fuori: dagli schemi, dalle convenzioni, dalle costrizioni. Un uomo che ha sempre cercato di fare la strada prima che la strada facesse lui.


“Dove sono gli accampamenti tra i boschi, le fumerie, i vecchi yegg che viaggiavano sulle aste, dov’è Mary stinco di maiale? Dov’è la famiglia Johnson? E come disse un altro ladro, Francois Villon, “Dove sono le nevi di un tempo?”.
Nelle parole dei poeti e degli scrittori, nei quadri dei pittori. (William S. Burroghs)


domenica 23 febbraio 2014






1913 Massacre – Woody Guthire



La canzone 1913 massacre scritta da Woody Guthrie, descrive la strage di minatori e delle rispettive famiglie, durante la  vigilia di Natale del 1913 in Calumet, Michigan.
I figli degli emigranti che lavoravano in miniera si erano messi il vestito della festa. Le bambine avevano ornato i loro capelli con il nastro più bello. Quando si aprirono le porte della Società di Mutua Beneficenza Italiana, corsero tutti intorno all’albero che campeggiava al centro del grande salone. I loro padri erano tutti poveri minatori che si ammazzavano di fatica per una paga da fame nella miniera di rame di Calumet, un piccolo villaggio ai confini tra il Michigan e il Canada. Era gente che veniva da ogni parte del mondo: c’erano svedesi, norvegesi, finlandesi e tanta gente dall’est europeo. Ma erano gli italiani i più numerosi, erano talmente tanti da essere riusciti a costruire con tanta fatica e risparmio un edificio che potesse ospitare la loro società di solidarietà e beneficenza. Un edificio di legno dove poter ritrovare un po’ della loro amata Italia tra un caffè e una grappa capaci di riscaldare i loro cuori stretti dalla morsa del gelo che contraddistingue quella zona d’America dimenticata da Dio e dagli uomini, in cui l’inverno sembra non finire mai.
Si diceva che fossero anarchici e ribelli, tutto ciò che volevano, e per questo erano scesi in sciopero, era migliorare le loro condizioni di lavoro ed ottenere un salario più giusto. Lo sciopero fu durissimo, com’erano duri tutti gli scontri di classe di quegli anni. Era cominciato a luglio e andava avanti da quasi sei mesi. I minatori però, tenevano duro, non mollavano. La paga per quei minatori non arrivava nemmeno a un dollaro al giorno: un’autentica miseria che i padroni pagavano per un lavoro pesante, pericolosissimo e dai ritmi disumani. I minatori alla vigilia di quel Natale erano quasi ridotti alla fame. Sei mesi di sciopero, senza stipendio, avevano prosciugato i loro seppur minimi risparmi. Era una lotta durissima, faticosa che si stava per tramutare in un autentico dramma. Ma tutti, con una commovente solidarietà d’altri tempi, si erano stretti intorno ai lavoratori italiani. E forse anche per ringraziare tutta la popolazione che si era schierata dalla loro parte, i minatori italiani vollero organizzare una festa per festeggiare comunque l’arrivo del Natale. Una festa alla buona per gente semplice. I loro figli, come sempre, sarebbero comunque stati felici accontentandosi anche solo di vedere l’albero e ascoltare qualche dolce canzone di Natale. Faceva molto freddo e la cittadina si era ricoperta di neve la vigilia di Natale. E ne era venuta tanta di neve, come sempre d’altronde.
I bambini di ogni età raccolti nella sede della Società di Mutua Beneficenza erano davvero tanti. Giocavano a rincorrersi nella grande sala e ballavano scherzosamente con i loro genitori al suono di una piccola orchestra formata da una chitarra, un organetto, un mandolino e un’armonica a bocca. Si erano tuffati felici in quelle torte fatte in casa che le signore avevano portato per contribuire alla festa.
Fu proprio in quel momento che una squadraccia assoldata dai padroni delle miniere mise in atto quel piano tragico; così ben delineato da Guthrie che, nella sua canzone racconta: “…Gli scagnozzi del boss del rame ficcarono le loro teste nella porta e uno di loro urlò: “C’è un incendio!”. Una donna dall’altra parte gridò: “Non è vero non c’è niente del genere, continuate la festa…”. Fu tutto inutile. Presa dal panico l’orchestra smise di suonare e tutti afferrarono i loro figli per precipitarsi fuori, per mettersi in salvo. I bambini iniziarono a piangere e ad urlare terrorizzati. Quando i primi arrivarono alle porte del salone, le trovarono sbarrate dal di fuori. Fu proprio allora che nel salone cominciò a serpeggiare la paura più atroce e l’inferno si scatenò in un baleno. Inutili gli sforzi di chi, avendo capito cosa stava accadendo gridava a più non posso: “E’ solo uno scherzo! E’ solo uno stupido scherzo!”. Non ci fu nulla da fare. Guthrie riesce con poche parole a descrivere sia il tragico avvenimento sia gli infami protagonisti della storia quando canta: “…Quei criminali ridevano mentre tanti bambini venivano calpestati a morte sulle scale…”. Fu un massacro vero e proprio. Un’autentica strage. Quando finalmente la folla riuscì a buttar giù le porte e con il passare dei minuti il terrore cominciò a placarsi, una terribile angoscia scese sulle famiglie sudate e intirizzite. Non c’erano bambini con loro. Dov’erano i bambini? Cominciò a quel punto un appello interminabile destinato a rivelarsi inutile. I genitori risalirono affannosamente le scale urlando disperatamente i nomi dei loro figli. Quello che si trovarono davanti fu uno spettacolo agghiacciante: decine di bambini a terra morti per essere stati orribilmente calpestati dalla folla terrorizzata. Settantatre furono le vittime.


Queste le parole che il grande folksinger mise a chiusura del suo brano. “…Non mi è mai capitato di vedere una cosa così terribile. Portammo i nostri piccoli vicino al loro albero di Natale. I criminali fuori stavano ancora ridendo… Il villaggio era illuminato da una fredda luna di Natale… Madri e padri piangevano e con loro i minatori che tra le lacrime dicevano: “Guardate a cosa ha portato l’avidità dei padroni…”.



venerdì 14 febbraio 2014



Cisco Houston    hard traveling
 

Cisco Houston fu come una personificazione del viaggio, un’incarnazione stessa dello spostamento, non soltanto come ricerca di mezzi di sussistenza, ma anche come profonda ragione di vita. Hard traveling. Come il viaggiare inquieto di padri di famiglia travolti dagli effetti devastanti della Grande Depressione del 1930, dall’indigenza e dalla precarietà causate da quella calamità naturale chiamata Dust Bowl. Essa innescò un ferale processo di desertificazione che falcidiò le colture delle grandi pianure, assetò le terre e sconvolse di cicloni la vita di migliaia di agricoltori e allevatori. A causa della grave crisi economica americana, ben due milioni di persone fra il 1929 e il 1933 si misero in cammino, attraversando gli States da costa a costa, alla ricerca di lavori stagionali, vivendo una vita infelice in sordide baraccopoli, in accampamenti, lontani dagli affetti e dai paesi natali. Un quadro ben più squallido e crudo di quanto il romanticismo della letteratura e delle folk songs ci abbia raccontato.
Cisco Houston appartenne a questa lacera e infausta truppa. Dormì sui vagoni merci o sotto le stelle, fece autostop e percorse miglia e miglia di highways con le proprie gambe. Raccolse luppolo o patate per una manciata di dollari, conobbe nei campi di rabarbaro o fra gli aranceti altri diseredati della terra e lì lievitò la sua vocazione sindacale a tutela degli sfruttati.
Ma dove c’è dolore c’è pure poesia e se sai suonare una chitarra e hai la voce di un Apollo puoi diventare un cantastorie, un folksinger e in questa schiera Cisco fu tra i più grandi. Dichiarò di aver intrapreso almeno una trentina di viaggi per il paese e solo un altro compagno, armato di una micidiale chitarra, poteva vantarne altrettanti: era Woodrow Wilson Guthrie, dall’Oklahoma, ma tutti lo chiamavano Woody. 


Gilbert Vandie Houston, detto Gil, aveva mutato quel suo eccentrico appellativo da un piccolo centro della California, nel quale aveva sostato un poco durante le sue peregrinazioni. Cisco Grove, per l’esattezza, fra Reno, Nevada e Sacramento, un posto dimenticato da Dio, non reperibile sulle cartine geografiche, ma abitato attualmente da circa 160 anime. Gil era nato nel Delaware, il diciotto di agosto del 1918, ma gli costava ammetterlo. Preferiva spacciarsi come nativo della Virginia, terra di origine della madre e della nonna, le quali assiduamente gli cantavano traditionals di quei territori del Sud. Ne era orgoglioso Gil.
La sua famiglia si spostò in California quando lui aveva due anni e nel tempo a venire si distinse negli studi più per la memoria che per l’ingegno. Non si erano accorti che egli dissimulava un gravissimo difetto alla vista che lo costringeva quasi alla cecità. Gil era affetto da nistagmo, una malattia che obliterava la vista, salvando solo la visione periferica. Gli era impossibile tenere lo sguardo fisso e poteva leggere soltanto inclinando la testa o da un angolo obliquo, mentre le immagini si succedevano rapidamente davanti alle pupille. “Cieco come un pipistrello”, disse Moses Asch amico e leggendario produttore della Folkways. Ma Gil fu talmente abile a nascondere la sua malformazione che molti neppure se ne accorsero. A scuola egli maturò una passione violenta per il teatro, studiò recitazione e sostenne ruoli che più volte gli vennero affidati. Con la musica, la prosa lo volle per sempre sui palcoscenici, come un esigente padrone del cuore.
Nel 1932 il padre di Gil abbandonò la famiglia ed egli con i suoi si era già da un po’ trasferito a Bakersfield. Con il fratello maggiore Boy, si caricò di ogni responsabilità e non bastando al bisogno il misero sussidio di disoccupazione, i due fratelli si misero in viaggio, lavorando nei campi di ortaggi, ricevendo spesso come salario, latte o verdure. Davanti ai loro occhi scene di fame e di crudeltà: montagne di patate irrorate di kerosene, arance intrise di creosoto e la gente lì a guardare. Gil viaggia e viaggia, con un gruzzolo sotto la giacca da portare a casa. La famiglia tira avanti con queste provvidenza e con l’aiuto dei vicini.
Il treno sfreccia per le Cascade Mountains, si inoltra in anguste gallerie. Gil, ora divenuto Cisco, lavora in una compagnia teatrale ad Hollywood. Morde sempre il teatro. E’ il 1938 quando con l’amico Will Geer ascolta Guthrie e il show radiofonico alla KFVD. Incontrare Woody e diventarne intimo fu questione di poco. Cisco cantava da tenore, con una voce ben impostata, da attore. I critici non glielo perdoneranno. Poiché era giudicato conveniente nell’esercizio della folk song, un canto affumicato, diseguale, spontaneo ad ogni costo. Accompagnò vocalmente Woody nel suo programma e l’amico gli diede una mano economicamente. Girarono poi insieme i campi di lavoro degli emigranti. Geer pagava i conti e qualche volta Burl Ives si accompagnò a loro. Nel ‘39 a New York, Cisco fece l’imbonitore da strada per spettacoli teatrali e nel 1940 si imbarcò, alla vigilia del conflitto mondiale, nella marina mercantile. Gli scali valevano esibizioni con Woody e talvolta con gli Alma­nac Singers. 


Aveva già lavorato anche come cowboy, taglialegna, come attore in piccoli ruoli cinematografici ed era comparso in numerosi radio show. Guthrie iniziò le sue registrazioni con Moses Asch nel 1944 ed ebbe Cisco a lavorare con sé. Questi era un collaboratore tanto umile quanto recettivo e provetto nel flatpicking della sua chitarra. Si disse che il suo stile ricordava quello di Ives, ma Cisco fu sempre schivo e preoccupato di non essere un chitarrista di qualità. Si disinteressò delle critiche malevole di chi non lo inquadrava nel folk puro e proseguì per la sua strada.
L’occasione della vita sopravvenne per Cisco Houston nel 1954, quando dopo aver già precedentemente lavorato in televisione a Tucson, gli fu data la possibilità di gestire un personale radio show. Ciò capitò a Denver, Colorado, dove lo spettacolo andò in onda, il lunedì e il mercoledì, alle 18,15 pomeridiane. Crazy Heart, scritta insieme a Lewis Allen, arrivò in cima alle classifiche e la popolarità di Houston si estese rapidamente. A metà dell’estate il suo spettacolo sparì improvvisamente dalla circolazione.
Nel 1959 insieme a Marilyn Childs, Sonny Terry e Brownie McGhee, Houston fu invitato per un lungo tour in India. Vi passò dodici settimane e, al suo ritorno, diede ulteriori concerti in Inghilterra e Scozia.
Affermato artista, esauriti i tempi bui di braccatura ai rossi, Cisco Houston aveva realizzato un pugno di dischi per la Folkways e diverse registrazioni con Guthrie, Leadbelly ed altri. Incise anche per labels come Stinson, Vanguard e Disc, ma non si può dire che la sua produzione sia stata copiosa.
L’apogeo della sua fortuna di artista coincise con la parte terminale della sua vita. Agli inizi degli anni ‘60 ricevette numerose scritture per esibizioni in night-clubs, presenziò a festival estivi ed autunnali e visse una breve stagione di positivo contrappasso ricevendo quegli onori e quegli attestati di stima di cui una vita ben grama lo aveva privato. Durante l’estate del 1961 scoprì di avere un cancro allo stomaco e che il tempo che gli era dato da vivere risultava ben esiguo. Cisco non se ne curò troppo, più affannato dalle sorti del mondo e degli equilibri socio-politici che dalla propria sofferenza. Uomo gioviale, di grande sensibilità, continuò finche gli fu possibile ad esibirsi, commentando ironicamente le beffe del destino. “Il problema di tutta la mia vita è stato il mio tempismo, sempre cattivo”. 


Cisco lasciò serenamente la vita il 28 aprile 1961 all’età di quarantadue anni, a San Bernardino, California.
Cisco Houston cantò canzoni per i cowboys, per i boscaioli, per tutti i lavoratori, cantò le songs del sindacalista Joe Hill, canzoni di ferrovia e motivetti per bambini, canzoni d’amore e canzoni per gli hoboes che avevano sfondato le scarpe sulle strade e soprattutto cantò nella speranza di lasciare un mondo peggiore di quello che dopo la sua morte gli altri avrebbero edificato. 


“Molti ragazzi vengono da me e mi chiedono dei miei giorni sulla strada. Io cerco di dissuaderli dall’andarsene via in quel modo... Noi abbiamo fatto così in quei tempi, perché dovevamo farlo, non perché preferivamo farlo”.


Mary Post Wolcott

 
 








domenica 9 febbraio 2014




In ricordo di Pete Seeger



Non poteva che essere fatto un omaggio su queste pagine magnetiche sulla figura del grande Pete Seeger scomparso il 27 gennaio 2014 all’età di 94 anni.
Il decesso mette fine alla vita di una delle più grandi figure di riferimento della musica folk americana.
Nato il 3 maggio del 1919, fu figlio del musicologo Charles Seeger e di Vostance De Clyver Edson Seeger.
Cresciuto in una famiglia di artisti (anche i suoi fratelli Mike e Peggy erano musicisti e cantanti), sentì per la prima volta il suono del banjo a cinque corde – che in seguito sarebbe diventato il suo strumento principale – quando suo padre lo portò ad un festival in North Carolina.
Aveva in mente di diventare giornalista, per questo ha frequentato Harward, dove fondò un giornale e sì unì al circolo dei giovani comunisti. Dopo due anni abbandonò l’università per trasferirsi a New York, dove il signor Lomax lo presentò al cantante blues Huddie Ledbetter, conosciuto ai più come LeadBelly, e gli trovò anche un lavoro come catalogatore e trascrittore di musica presso l’archivio della canzoni folk americane della biblioteca del congresso.



L’incontro tra Seeger e Woody Guthrie, un cantautore che condivideva l’idea di musica e società di Seeger avvenne nel 1940, quando si esibirono assieme durante un concerto di beneficenza per i lavoratori migranti della California.
Viaggiando attraverso gli Stati Uniti con Guthrie, Seeger raccolse parte del suo stile e del suo repertorio. Tornato a New York, iniziò a registrare i suoi primi album.
Assieme a Millard Lampell e Lee Hays, fondò gli Almanc Singers, che suonavano canzoni per i lavoratori e canzoni contro la guerra. Presto Woody Guthrie si unì al gruppo. Durante la seconda guerra mondiale il repertorio degli Almanac Singers iniziò a rivolgersi verso un pubblico più vasto con canzoni patriottiche ed antifasciste. Emersero però le prime canzoni contro la guerra del gruppo, diventate oggetto d’indagine da parte dell FBI, così la carriera della band crollò.


Il successo arrivò con il debutto dei Weavers, nel 1949, che diventarono un elemento decisivo per il fenomeno del folk revival. Le sue canzoni si trasformarono in autentici inni pacifisti, spesso ripresi da altri artisti: a parte "We shall overcome", la vera colonna sonora delle marce per la pace per tutti gli anni 60, vanno ricordate "Where have all the flowers gone?", portata al successo nel 1962 dal Kingston Trio, e "Turn turn turn", che alla fine del 1965 trascina i Byrds ai primi posti delle classifiche. Rimane celebre il suo attacco al presidente Lyndon Johnson e alla sua politica militare durante il programma tv "Smothers Brothers Show" dove Seeger canta anche quella che è una delle prime canzoni contro la guerra nel Vietnam, “Waist deep in the big muddy“ ("Giù fino al collo nel grande pantano").


L'importanza storica di Seeger e` forse tutta racchiusa nella storia dei primi "hootenanny".
Nessuno sa esattamente cosa significhi la parola, ma Seeger la conio` quando con gli Almanac Singers suonava per raccogliere fondi. Al concerto partecipavano in genere anche amici trovati sul posto. Dalle canzoni si passava alle barzellette e talvolta alle discussioni politiche. Il pubblico stesso talvolta interveniva. Gli "hootenanny" furono in pratica le prime jam bianche, al tempo stesso i primi festival alternativi.
Attivista politico, sostenitore dell'area più radicale della sinistra americana, ecologista, fu anche un paladino inarrestabile di tante battaglie in difesa dell'ambiente.


“Certo è morto. Ma questo non significa che se ne sia andato” - Arlo Guthrie