mercoledì 28 dicembre 2016

Johnny Cash - She Used To Love Me A Lot


Captain Fantastic





Ben Cash e sua moglie Leslie hanno deciso di crescere i loro sei figli nella foresta del Pacific Northwest, lontano dallo stile di vita occidentale ed insegnando loro a sopravvivere alle asperità della natura selvaggia. Quando la donna muore in ospedale, Cash e i figli decidono di recarsi al funerale per adempiere alle sue ultime volontà ma l’impatto con la società civile e con i loro famigliari sarà estremamente difficoltoso.
Il road-movie di Matt Ross si regge in miracoloso equilibrio tra la componente drammatica e quella comica facendo sparire la linea di confine tra le due. 

C'è dichiaratamente dell'autobiografico, in questa seconda fatica del regista, cresciuto nelle comuni della California del Nord e nell’Oregon, senza televisione e senza tecnologie di alcun tipo. Nel film ha saputo trattare con grazia un tema quanto mai scottante, legato all'essere genitori al giorno d'oggi. 


Questo padre solo apparentemente fautore delle libertà, comincia a chiedersi se li abbia realmente educati alla vita. Spaventosamente acculturati, fisicamente preparati e clamorosamente educati, i sei pargoli hanno infatti seri problemi di socializzazione e di condivisione con il mondo esterno. 


Il mondo reale, che si trova fuori dai boschi, che indossa Adidas e Nike, gioca alla Playstation, guarda la tv, mangia nei fast food e non ha bisogno di uccidere e cucinare un cervo per saziare la fame.
Mortensen, accusato da due dei figli maschi di aver creato dei 'mostri', dei fenomeni da baraccone che nulla sanno dalla vita reale, non è altro che un padre assalito dai dubbi e dalle responsabilità, come qualsiasi altro genitore sulla faccia della Terra.


Un padre in grado di crescere sei figli in totale solitudine dopo la morte dell'amata moglie, e dal fantastico senso di adattamento, in quanto capace di cambiare idea e posizione dopo oltre 10 anni di cieca dedizione nei confronti di un'educazione estrema. Per il bene della propria prole, come in qualsiasi famiglia 'normale'.




martedì 20 dicembre 2016

Alice's Restaurant







Alice's Restaurant è un film di Arthur Penn del 1969.

L'opera è stata ispirata da una canzone autobiografica, Alice's Restaurant, di Arlo Guthrie, figlio del cantante Woody Guthrie.

Il film contiene elementi ironici, satirici, lirici e melodrammatici, ma è soprattutto un lucido affresco dell'America contemporanea in dissoluzione, alla ricerca di una nuova chiave di lettura del sogno americano.



Arlo, un diciottenne di New York si iscrive al College, per rimandare la chiamata alle armi. Ma in breve tempo, viene espulso per i suoi comportamenti trasgressivi. Conosce una coppia di giovani, Ray e Alice, che gestisce un ristorante, allo scopo di finanziare un gruppo vicino agli hippie, che ha fondato una comunità in una chiesa sconsacrata. Ma la chiamata alle armi incombe sulla vita di Arlo che saluta la compagnia e, al suo rientro, scopre che la comunità si è sciolta e ognuno è andato per la propria strada.



Questo film è  uno dei tributi alla lost generation. Si comincia ad intravedere un accenno al road-movie che troverà il suo apice con "Easy rider" pochissimo tempo dopo. Ed è inevitabile il confronto con quest'ultima pellicola. Se "Easy rider" è infatti un film pregno di una visione pessimistica del fallimento della lost generation oramai sul viale del tramonto, in "Alice's restaurant" si comincia ad intravedere quest'ombra del fallimento, ma è solo un'ombra, che viene immediatamente cancellata dalle scelte coraggiose di Arlo.









lunedì 5 dicembre 2016

Special Exits - Joyce Farmer




Special Exits è un fumetto costato all’autrice 13 anni di intenso lavoro e come dichiarato dalla Farmer inizialmente il suo fine era terapeutico, un modo per affrontare e metabolizzare ciò che aveva vissuto, senza progetti di pubblicazione. Questo graphic novel unico nel suo genere, è il capolavoro della carriera di Joyce Farmer che con quest’opera autobiografica si è fatta riscoprire dal pubblico odierno. L’autrice mette nero su bianco l’esperienza vissuta nel prendersi cura dei suoi genitori anziani, realizzando una delle poche opere che affronta questa stagione della vita.


Joyce crea prima di tutto un grande ritratto famigliare, raccontando la relazione di due coniugi che vivono insieme la lenta decadenza dei loro corpi e le piccole ma continue frustrazioni quotidiane e contemporaneamente il loro rapporto con la figlia a cui si devono affidare sempre di più. Inoltre concentrandosi sui particolari, i dettagli della routine domestica sempre più difficile piena di piccole sfide da affrontare giorno dopo giorno, l’autrice scandaglia la fragilità emotiva di quello che è il periodo più difficile della vita.
Con realismo e senza sentimentalismi riesce a condensare in 200 pagine quel lungo periodo, a cavallo tra anni ’80 e ’90, che inizia con i primi grossi limiti imposti dall’età, come smettere di guidare la macchina, e che finisce con la malattia, lo scontro con le case di cura, la perdita della lucidità e l’inevitabile epilogo.



Ma in Special Exits la Farmer ci racconta anche un pezzo di America, la vita nel South Los Angeles di un’anziana coppia bianca in un quartiere oramai abitato quasi solo da afroamericani, i riots che seguirono l’omicidio di Rodney King nel 1992 – di terribile attualità – ma anche la storia di un bel pezzo di ’900 degli States nei ricordi di Lars e Rachel, ricordi che nelle loro menti si indeboliscono sempre di più, sfumano, cambiano.


L’opera della Farmer è di incredibile potenza emotiva proprio grazie alle capacità narrative di questa fumettista che non arretra mai davanti agli aspetti anche più brutti e squallidi della vecchiaia, che sa raccontare con pudore la fragilità del corpo nudo di chi non è più in grado di badare a se stesso, la delicatezza di una bugia raccontata a fin di bene, i momenti di imbarazzo che trascolorano nell’intimità di una risata complice e la consapevolezza che la fine non può essere cambiata e che la vera lotta è riuscire a far mantenere uno stile di vita dignitoso a chi ami.

Sul valore di questo romanzo a fumetti si è espresso anche Robert Crumb, definendolo «uno dei migliori fumetti in forma lunga che abbia mai letto, paragonabile a Maus», e poi «è un lavoro unico. Nessun altro farà mai niente del genere». 



venerdì 2 dicembre 2016

James McMurtry - Complicated Game







"Dolcezza, non urlarmi addosso mentre pulisco la mia pistola". Trovatemi qualcuno, nell'anno di grazia 2016, che aprirebbe un disco con questi versi, specialmente se si sta parlando di relazioni, sentimenti, in un quadretto familiare di semplicità quotidiana. James McMurtry non è però uno qualunque e soprattutto non è politicamente corretto, sia quando scrive una delle protest song più belle e spietate degli ultimi trent'anni (We Can't Make It Here), sia quando decide di affrontare il "gioco complicato" della vita americana, con uno sguardo ricco di dignità sulle persone. Potrebbe sembrare l'incipit di una muder ballad, il verso di cui sopra, invece è l'attacco di Copper Canteen, prima di dodici "short stories" in musica che ribadisce la centralità del cantautore texano fra quegli autori che hanno traghettato certa tradizione letteraria "dei margini" dalle pagine scritte ai solchi di un disco. 


Come un Carver perso nelle distese del South West o un Jim Harrison altrettanto spietato, ma con una chitarra a tracolla, giureremmo (quasi) che il figlio del premio Pulitzer Larry McMurtry abbia superato il padre in fatto di narrazione. Soltanto che il buon James ha preferito i quattri-cinque minuti e i tre accordi in croce delle sue canzoni rispetto al ritmo della parola scritta. A sei anni da Just Us Kids, più sfrontato ed elettrico, Complicated Game interrompe la proverbiale pigrizia artistica (ma è solo necessità di dire le cose quando davvero vale la pena dirle) di McMurtry mettendo sul piatto l'album più introverso e soprattutto di impianto acustico della sua carriera. Non inganni infatti il talkin' serrato e dylaniano, anche con qualche pulsione elettronica fra le righe allucinate del testo, del primo singolo estratto, How'm I Gonna Find You Now. Si tratta per lo più di un'eccezione, dentro una scenografia asciutta e decisamente folkie (il banjo di Ain't Got A Place sulle tracce di Woody Guthrie, la rustica melodia country di Deaver's Crossing che tende a privilegiare, grazie anche alla produzione spartana di CC Adcock e Mike Napolitano, l'intensità delle parole, lo scorrere delle vite dei personaggi. 



Siano essi il pescatore di Carlisle's Haul, il citato cacciatore di Copper Canteen, lo smarrito veterano di guerra in South Dakota o le molte vicende di relazioni umane e di coppia (una classica You Got to Me, la tenera danza di She Loves Me e i suoi imprevisti cori in odore di doo-woop, o ancora la secca Cutter) che segnano la scaletta, le loro storie prendono corpo attraverso dettagli che soltanto un grande narratore sarebbe in grado di scovare. 

Poi c'è la musica certo, e non è affatto un dettaglio, sia chiaro, ma questa volta più di altre l'immobilismo di McMurtry è quasi un pregio: il suo ostinato attaccamento a certe progressioni di accordi, in fondo anche il registro limitato della sua interpretazione, sono tutti funzionali al racconto che ci vuole mostrare. Sublimato nel finale con l'intensa melodia dai colori irish di Long Island Sound - tra gli episodi più vivaci dell'album insieme al sapore southern indolente di Forgotten Coast - Complicated Game è un fiume di caratteri, che si intrecciamo nel denso manuale di resistenza umana approntato da McMurtry.