lunedì 28 novembre 2016

Hell or High Water





Il sogno americano muore nelle praterie del Texas. Le terre che hanno ospitato James Dean e Rock Hudson ne Il Gigante si inaridiscono sotto i colpi della crisi, con le banche che stritolano i poveri abitanti. Ognuno cerca di sopravvivere a modo suo, e il cinema di Mackenzie racconta l’infelicità di un mondo senza speranza. Nelle grandi città gli uomini cercano di realizzarsi, ma in provincia non c’è spazio per le ambizioni: tutti vorrebbero scappare e nessuno prepara le valigie. Così va in scena il dramma di una famiglia sul lastrico, disposta a tutto pur di tenersi almeno la casa.


I fratelli Toby e Tanner combattono per motivi diversi. La loro battaglia si svolge nel quotidiano, dove i soldi non bastano mai. L’uno vorrebbe riscattare il ranch di famiglia da un’ipoteca troppo gravosa, l’altro è un ex galeotto alla ricerca di emozioni forti. Tanner “il pazzo” è l’unica salvezza per Toby, padre di famiglia che vuole regalare un futuro migliore ai suoi figli. Rapinare banche diventa una necessità, anche solo per dare un po’ di colore alla monotonia del paesaggio attorno a loro. Ma due criminali non vanno lontano quando a inseguirli c’è un ranger come Jeff Bridges.


David Mackenzie si lancia in un western moderno dai caratteri esistenzialisti. Narra la lenta discesa verso gli inferi di un uomo perbene, che non ha alternative se non smettere di vivere. Toby, interpretato da Chris Pine, si infrange contro una società che non si occupa del singolo. Ciò che conta è solo il dio denaro, che tutto può nella notte delle finanze americane. Il cittadino si trasforma nel terrore della sua comunità, e la natura rimane a guardare mentre le proprie creature si scannano.

 
Jeff Bridges rappresenta una giustizia ormai al capolinea, un uomo che da lì a tre settimane si godrà la pensione dopo anni di onorato servizio. Ma ancora una volta il meritato riposo non fa gioire, perché il poliziotto senza paura non ha una famiglia, non ha un buon motivo per tornare a casa, se non una birra e qualche partita in televisione. Ognuno vive la propria tragedia senza badare agli altri e, come naufraghi, i protagonisti cercano di rimanere a galla in un oceano più grande di loro.

Hell or High Water è un film solido,che culla lo spettatore con la sua meravigliosa colonna sonora e che prende i suoi tempi. Si sofferma sui personaggi e fa capire il movente del crimine, di cui alla fine siamo un po’ tutti colpevoli. Mackenzie non vuole giustificare i misfatti, ma farne comprendere l’origine, nella speranza che qualcosa possa cambiare. Il ritratto di una piccola realtà ormai condannata colpisce più degli alti grattacieli di New York.





giovedì 24 novembre 2016

Animali notturni



“Credimi, il nostro mondo è molto meno doloroso del mondo reale”


Tom Ford, stilista e imprenditore della moda, torna sul grande schermo con il suo secondo film  a sette anni dal suo esordio A single man.
 La protagonista del film è una gallerista di Los Angeles insoddisfatta nonostante i successi sul lavoro perchè la sua vita privata è un fallimento. Mentre il marito è via per l’ennesima volta, il suo ex le manda un manoscritto invitandola a leggerlo. Susan si immerge nel romanzo, un thriller cupo e drammatico, e capisce tramite questa storia nella storia, cosa ne è stato del suo grande amore di un tempo. 


Nel ruolo di Susan c’è Amy Adams, mentre Jake Gyllenhaal interpreta sia l’ex marito sia il protagonista del romanzo Tony, accanto ai notevoli Michael Shannon e Aaron Taylor-Johnson. La fotografia è di Seamus McGarvey mentre la musica è del compositore polacco Abel Korzeniowski, allievo del grande Krzysztof Penderecki, che aveva già lavorato in A single man.
La storia di Tony avrebbe potuto essere scritta da Cormac McCarthy e non solo per l’ambientazione nei territori di quella oscura e minacciosa terra del sud del Texas, lungo le interminabili highway che scorrono in mezzo al nulla, ma anche per la carica di violenza repressa che esplode improvvisamente.


Ford è riuscito a descrivere con efficacia palpitante quella impenetrabile inquietante oscurità e la ostile presenza umana che sembra confondersi con la selvaggia pianura che si stende senza confini. Così tanto muscolare la vicenda della frontiera, così tanto trattenuta quella di Susan che riflette sui propri errori, sulla propria vita, rimpiangendo il passato e le sue scelte sbagliate e dando forma, alle conseguenze di quelle decisioni.


Le sensazioni che ti lascia il film sono incredulità e confusione che vanno di pari passo in tutta l’opera, e si avvinghiano in un finale che, gelido, trapassa lo spettatore come una lama. Si resta attoniti di fronte al dipanarsi degli eventi, mentre si sciolgono gli intrecci narrativi rimane legato quel nodo alla gola che non può non intaccare l’animo dello spettatore.
In tutto questo e in molto altro emerge e si consacra il talento di Tom Ford, che non trascura nulla, mettendo sullo stesso piano l’estetica di cui è Maestro, assecondata da una scenografia e una fotografia pungente ed efficace, ed una regia cinica ed acuminata.


 

 


Townes van Zandt - Gypsy Friday


domenica 20 novembre 2016

The lumineers - Cleopatra









Mentre gran parte del mondo musicale si sta spostando verso derive più elettroniche e moderne c’è ancora qualcuno che crede nelle origini del proprio operato. I The Lumineers ne sono la prova concreta. Sono passati ormai quattro anni dall’esordio straripante della band di Denver che li ha portati a scalare e raggiungere le vette di tutte le classifiche del mondo; spesso, il secondo album, può essere o la conferma di un fenomeno musicale interessante e concreto, oppure il degenerare verso un flop disastroso.


Ebbene Cleopatra è nettamente la riprova che i giovani musicisti folk rock del Colorado ci sanno fare eccome. I The Lumineers hanno scelto di non rivoluzionarsi, sono musicisti folk, amano il far cantare gli altri, hanno fatto dell’essere semplici e genuini il loro cavallo di battaglia e, dopo i risultati incredibili del primo disco, hanno scelto la strada più semplice ma anche più rischiosa: seguire quelle musicalità che li hanno resi quello che sono.


Dopo un primo ascolto di Cleopatra il pensiero immediato è che il disco sia il naturale proseguimento di The Lumineers. Undici tracce brevi e perfettamente orecchiabili che l’ascoltatore può fare proprie in men che non si dica. Canzoni semplici, fatte di pochi accordi di chitarra,  pianoforte, dell’immancabile grancassa e il battere di mani.
I testi narrano di vicende quotidiane, di piccoli drammi umani e voglia di rivincita. Si canta di lunghi viaggi, dell’abbandono di casa (Long From Way Home), di ferite già profonde e numerose (My Eyes e In The Light). Ci sono ritratti femminili (Angela) non dissimili per vocazione da quelli che ci saremmo attesi da un giovane De Gregori o Dylan. E poi l’amore: sognato e promesso (Ophelia), perduto e rincorso (Sleep on the floor). Tutto questo attraverso architetture musicali leggere ed essenziali che sussurrano all'ascoltatore le  poche note che bastano a creare la magia.






domenica 13 novembre 2016

Hurray For The Riff Raff - Little Black Star (Live on KEXP)


In the pines - Erik Kriek





Erik Kriek, nato ad Amsterdam nel 1966 dove tuttora vive e lavora, nasce, a suo dire, come musicista ancor prima che come disegnatore di fumetti e proprio con la presente opera riunisce le sue due principali passioni.
Le murder ballads sono storie di assassini e di omicidi, di violenze banditesche e di rappresaglie della giustizia. Costituiscono spesso la memoria di femminicidi oppure di manifestazioni della violenza maschile, e talvolta femminile, connessa all’amore passionale. O meglio ad una sua distorta e brutale interpretazione. E stanno molto spesso alla base di tantissimi successi rielaborati e rivisitati nell’ambito della musica rock e di tanta musica folk inglese ad americana.


Sono state cantate e, spesso, rese famose da personaggi come Woody Guthrie, Bob Dylan, Bob Frank, Dave Van Ronk e da un’infinità di altri cantastorie bianchi e afro-americani. Costituiscono un patrimonio immenso di storia orale e popolare e hanno contribuito a dar vita ad un’epica delle classi subalterne più profonda, ben al di là della semplicistica immagine risultante dalla, troppo spesso, retorica riproposizione dei canti del lavoro e delle lotte.
Long Black Veil”, una delle ballate disegnate da Kriek, ha costituito un grande successo per Johnny Cash, ma è stata interpretata anche dai Byrds, da Nick Cave, nel disco “Kicking Against the Pricks” del 1986, e da molti altri ancora. E’ la storia di un uomo ingiustamente accusato di omicidio e condannato a morte, a causa di un tranello tesogli dal marito della donna da lui amata, e del lutto che la donna del suo cuore porterà in seguito per sempre con sé.
La stessa “In The Pines”, che dà il titolo al libro, ha avuto un’infinità di versioni, spesso contraddittorie tra di loro e accomunate talvolta soltanto da pochissimi versi.





Kurt Cobain e i Nirvana ne hanno data una delle interpretazioni più drammatiche, ma prima della loro versione se ne conoscono molte altre incise nei contesti più diversi e dai titoli più disparati. Da Leadbelly ad una moltitudine di cantanti.

Anche le altre ballate riscritte dai disegni di Kriek affondano le loro radici in una tradizione che risale all’Ottocento e talvolta anche al Settecento. “Pretty Polly”, ad esempio, è la storia della vendetta del fantasma di una donna che insegue il proprio assassino anche sull’ oceano, fino a spingerlo a suicidarsi tra le onde del mare in tempesta. Mentre “Taneytown”, “Caleb Meyer” e “Where The Wild Roses Grow” hanno risalito il corso del tempo per giungere fino a noi attraverso le versioni di artisti come gli Stanley Brohers, Steve Earle, la Band, Grateful Dead, Gillian Welch e Handsome Family. 
E che i magnifici disegni dell’autore,ispirati dalla grafica degli EC Comics degli anni cinquanta, privi di “garanzia morale” e visti come fumo negli occhi dai benpensanti dell’epoca, rendono in maniera davvero drammatica ed immaginifica.


Questi drammi costituiscono soltanto una piccola parte di quell’imponente eredità di storie che la memoria popolare ci ha trasmesso attraverso la popular music.
In una sua prefazione ad un’antologia di canzoni popolari americane incise tra il 1913 e il 1938, Tom Waits ha scritto: “Cicloni, inondazioni, fame, questioni di soldi, naufragi, epidemie, uragani, suicidi, infanticidi, omicidi, malessere, incidenti ferroviari ed aerei, incendi…disastri. Non hanno costituito soltanto il pane e il burro oppure la succulenta bistecca del business della notizia.

Tutto ciò è contenuto anche nelle canzoni popolari: tragiche cronache dei pericoli connessi all’esistenza umana. Canzoni che sono come fosse scavate in fretta lungo le strade e appena ingentilite da croci di legno mentre il delitto era ancora fresco […] Nei tardi anni Venti e nei primi anni Trenta la Depressione strangolava la Nazione. Quello fu il tempo in cui le canzoni costituivano strumenti per poter continuare a sopravvivere. Un’intera comunità cercava di rielaborare i propri lutti e le proprie perdite , diffondendone così i semi della memoria. Questa collezione è un giardino selvaggio sviluppatosi da quei semi”.