martedì 17 ottobre 2017

Fuoco sulla montagna




"L'anarchia non è una favola romantica, ma una testarda constatazione, basata su cinquemila anni di esperienza, che non possiamo affidare la gestione delle nostre vite a re, preti, politici, generali, e commissari provinciali.“ 

A Edward Abbey, Tom Russell ha dedicato una bellissima ballata in Indians Cowboys Horses Dogs, che potrebbe essere benissimo anche il sottotitolo di Fuoco sulla montagna. Gli argomenti sono gli stessi perché l’Edward Abbey di cui stiamo parlando è il narratore dei Sabotatori, uno scrittore che riconosce al territorio, alla wilderness americana, al deserto, alle pietre e al vento un ruolo superiore nella vita delle persone e degli animali. Come è giusto che sia, perché soltanto in tempi banali e indolenti come i nostri si confondono le rive di un fiume con le lottizzazioni, si radono le montagne e poi si parla di fatalità davanti alle frane, ci si spaventa per un po’ di sabbia portata dal vento e non ci si accorge del veleno quotidiano che respiriamo. 


Fuoco sulla montagna va ancora più indietro nel tempo, nel New Mexico del 1960: nel pieno della guerra fredda, non per niente da lì a due anni scoppierà la crisi dei missili di Cuba, il governo degli Stati Uniti d’America requisisce terreni per ampliare le sue basi missilistiche. John Vogelin, proprietario di un ranch in una terra aspra, durissima e affascinante invece di partecipare al virtuale confronto nel mondo diviso in due, intraprende una sua personale battaglia. A difesa del ranch, ma anche del territorio, della sua bellezza e dei suoi modi, antichi e rudi, di vivere. Lo aiuta soltanto il nipote Billy, da tempo trasferitosi in città, ma legatissimo al nonno e al suo ranch. Il confronto genera un romanzo che si legge d’un fiato, seguendo il percorso di almeno un paio di temi che si sovrappongono. 

Con scenari degni di Cormac McCarthy e una dolcezza che, direbbe Jim Harrison, è soltanto una sincerità dell’anima, Fuoco sulla montagna è un bellissimo romanzo sul crepuscolo del West e delle sue libertà, quello di cui parla Edward Abbey non è soltanto il New Mexico e un vecchio cowboy che non vuole mollare la sua terra. Parte da un lungo momento di puro terrore che ormai si è impolverato negli archivi della storia per raccontare quello che ci appartiene, quello che è nostro, e che tale rimanere. Non è il ranch di John Vogelin, non è il deserto. E’ il mondo in cui viviamo. 
“Possa il vostro cammino essere tortuoso, ventoso, solitario, pericoloso e portarvi al panorama più spettacolare. Possano le vostre montagne elevarsi fino alle nuvole e superarle.”