venerdì 27 aprile 2018

Mike Brodie




"Esiste semplicemente qualcosa dentro di me che mi spinge a scattare proprio quella foto, proprio in quel momento. Assecondo semplicemente quella sensazione".... "A volte prendo un treno nella direzione sbagliata ... qualunque cosa accada ne verrà fuori una foto, tanto che non risulta importante dove finirò." 


Mike Brodie è nato nel 1985 in Arizona. Nel 2004 ha iniziato un viaggio concluso nel 2009 e andato avanti per 50.000 chilometri attraverso 46 stati americani, senza una meta precisa.
Brodie ha 17 anni quando decide di fuggire da tutto  e inizia a “saltare” sui treni per attraversare gli Stati Uniti in lungo e in largo. Lascia una specie di famiglia e trova una specie di tribù. Dal 2004 al 2006 scatta Polaroid e si firma “the Polaroid Kidd”. Quando l’azienda interrompe la produzione, Brodie si compra una Nikon F3 per 150 dollari ed arriva a scattare fino a 7.000 mila fotografie. Ritrae vagabondi e giovani hoppers, che come lui scelgono di farsi trasportare altrove saltando da un treno all’altro.



Le immagini sembrano appartenere a un diario di viaggio personale dove il mondo è rappresentato con tonalità calde, colori insaturi. Brodie non ha mai studiato fotografia ma la sua composizione sembra richiamarsi a Robert Frank, William Eggleston e Nan Goldin. Le storie assomigliano a narrazioni moderne di Mark Twain o Jack Kerouac.

Due splendidi libri pubblicati da Twin Palms nel 2012 e nel 2014 lo fanno conoscere a critici e collezionisti. Libri asciutti, immagini senza titolo, poche parole scritte dall’autore stesso con stile sincopato che si concludono con un dubbio assoluto “Non sono sicuro di volere che qualcuno legga tutto questo”. 




 "Ho trovato un lavoro, riempire le borse della spesa per i clienti di un nezio. Ho vinto un concorso di disegno alle superiori e una gara di bici BMX. Non mi piacevano le ragazze fino a quando ho incontrato Savannah. Lei era una punk. Prese la mia verginità. Avevo 17 anni. Savannah mi ha insegnato a guidare e mi ha portato al mio primo concerto punk. Poi ho perso il mio lavoro, mi hanno cacciato da scuola, ho smesso di credere in Dio. Mi hanno arrestato perché facevo graffiti".

lunedì 9 aprile 2018

Stephen Shore



Considerato uno tra i più importanti pionieri del colore, Stephen Shore si è avvicinato alla fotografia con sorprendente precocità: scattava fotografia e usava la camera oscura già prima dei dieci anni, a quattordici Edward Steichen, il curatore capo del MoMa, acquista tre sue opere, da adolescente frequenta la Factory di Andy Warhol, a ventiquattro anni il Metropolitan Museum of Art gli dedica una mostra personale.

Nel 1973 Shore ritorna da un viaggio per gli Stati Uniti durato due anni. Il risultato di questa esperienza è “American Surfaces”, un progetto realizzato con una fotocamera 35mm e pellicole a colori. “American Surfaces”, è un ampio insieme di immagini che, emulando lo stile dell’istantanea, ritraggono tutto ciò che il fotografo ha incontrato in viaggio: le stanze in cui ha dormito, i pasti consumati, le persone, le strade, le stazioni di servizio, motel, le automobili, i parcheggi. 




Tra il 1973 e il 1981 Shore compie una nuova serie di viaggi nel Paese, viaggi che daranno vita a “Uncommon Places” (a cui appartengono le opere in collezione), un progetto da lui inteso come diario di un viaggio, non solo fisico ma soprattutto orientato a esplorare l’esperienza della visione. In “Uncommon Places” si assiste ad un’evoluzione formale dovuta al passaggio al grande formato: l’approccio è più meditato e la superficie del negativo condensa una straordinaria densità di informazioni.


Con uno stile privo di qualsiasi enfatizzazione, e una straordinaria resa della luce, l’opera di Shore coglie le trasformazioni che la cultura del consumo ha inflitto al paesaggio degli Stati Uniti, dove pali, cavi elettrici, neon e cartelli pubblicitari hanno per sempre compromesso l’immagine tradizionale della wilderness americana.








martedì 3 aprile 2018

Ansel Adams




Tra i più popolari fotografi al mondo, Ansel Adams ha dedicato l’intera vita alla natura, contribuendo in modo determinante a consolidare nell’immaginario collettivo l’idea della wilderness americana.
Nato a San Francisco pochi anni prima del catastrofico terremoto del 1906, durante l’infanzia trova nelle vicine dune del Golden Gate una fonte inesauribile di avventure. Il suo legame con la natura si trasforma in vera e propria passione in occasione del primo viaggio allo Yosemite National Park. Appena quattordicenne, Adams scatta le prime fotografie del parco che diviene uno dei suoi soggetti preferiti, sebbene nel corso della carriera fotograferà numerose aree naturali americane.


È alla fine degli anni ’20 che Adams conosce, grazie a Paul Strand, i principi della straight photography di cui, abbandonato il pittorialismo, diviene uno dei maggiori esponenti. Proprio tali principi – centrati sulla purezza e sull’autonomia della fotografia quale linguaggio espressivo – sono alla base dell’attività del gruppo f/64, che Adams fonda insieme a Edward Weston, Sonya Noskowiak e Imogen Cunningham, tra gli altri, nel 1932. Il nome stesso del gruppo ne rappresenta ideologicamente anche il manifesto: nella macchina fotografica, f/64 è la più piccola apertura del diaframma, che permette di ottenere la massima profondità di campo e la migliore nitidezza dell’immagine sia in primo piano sia nella distanza.

La visualizzazione dell’immagine che si vuole ottenere, ancor prima dell’esposizione e della stampa, è ciò che Adams ritiene fondamentale nel creare fotografie che, nel suo caso, hanno lo scopo ultimo di riflettere ciò che si prova di fronte allo spettacolo straordinario della natura.
La wilderness è per lui uno stato della mente e del cuore, un diritto che va difeso dalle crescenti minacce costituite da fenomeni come il turismo di massa, l’espansione industriale e la diffusione del consumismo. Attivamente impegnato come ambientalista, Adams condurrà in prima persona numerose campagne mostrando, attraverso le sue fotografie, non tanto la realtà e le cause del crescente degrado quanto l’irrinunciabile meraviglia della natura incontaminata.


 



Otis Gibbs - Great American Roadside